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Scritti dalla storia : del debito pubblico e della speculazione

In Inghilterra nel 1689 venne incoronato re Guglielmo III d’Orange dopo un periodo di lotte intestine fra i cattolici ed i protestanti inglesi. Il primo atto che il nuovo re fece fu la promulgazione del “Bill of Rights” che sancì la pace religiosa, i diritti e le libertà dei cittadini. Londra era una citta’ in pieno fermento economico di circa 750.000 abitanti, brulicava di artigiani, imprenditori, commercianti.
Si instaurò, così, un nuovo clima socio-economico ( la Banca d’ Inghilterra operava già dal 1695); la morale, i comportamenti sociali si stemperarono; si diffuse, quindi, un certo rilassamento dei costumi.

E con la pubblicazione de “ La favola delle api”1 (1705 ed in seconda edizione ampliata nel 1714) Bernard De Mandeville sosteneva che la civiltà – la ricchezza, le arti e la scienza –  è il risultato non dalle nostre virtù ma da ciò che questo autore chiamava vizi, e cioè i diversi bisogni naturali che ci fanno desiderare il benessere, il comfort, il lusso e tutti i piaceri della vita. E’ questa, dunque, un’apologia dell’uomo naturale e una critica dell’uomo virtuoso.
La fase espansiva economica alimentò il benessere , ma anche, nei decenni successivi, lo scoppio delle bolle speculative delle azioni della  Compagnia dei Mari del Sud  in Inghilterra e di quella della Compagnia del Mississipi   in Francia.  Bolle speculative che distrussero il sistema monetario francese e  fecero riformare quello finanziario inglese:venne infatti  promulgato il “Bubble Act” nel 1720, un ritorno alle regole ed all’uomo virtuoso.

La legge vietava la costituzione di società per azioni senza la preventiva autorizzazione da parte del  monarca inglese o del Parlamento svuotando di fatto la speculazione azionaria in quanto veniva meno l’azione ossia il certificato azionario rappresentativo di una società e quindi la sua circolazione. Il desiderio di sfidare la sorte comunque continuò con nuovi strumenti , iniziarono a comparire i contratti derivati ed in Inghilterra venne  promulgato nel 1737 il “Sir John Barnard’s Act” al fine di prevenire la speculazione nella compravendita dei contratti a termine.
Si riteneva la speculazione –  identificata con il gioco – nociva al mercato ed al commercio. Daniel Defoe  pubblicò nel 1731 “Il perfetto commerciante inglese” ove si evidenziava che “ogni mercante – con la benedizione di Dio – deve aspettare la sua parte di commercio con i propri vicini”  Traspariva la morale dell’epoca ancorata a  quella medievale : i commercianti ed i produttori devono trarre dall’esercizio onesto dello loro attività i mezzi di sussistenza, ogni vicenda economica rimaneva subordinata alla suprema istanza morale.

Morale ancora presente nel 1776 , Adam Smith nel  trattato “La ricchezza delle Nazioni” ricordava che “la frivolezza ed i piaceri egoistici hanno mandato in rovina gli uomini” , “la parsimonia è diventata rara”. Morale e diritto quindi tendevano parallelamente allo stesso fine , nel 1774 era stato promulgato anche il “Gambling Act o Life Insurance Act” : veniva vietato la possibilta’ di contrarre una polizza assicurativa su di una terza persona.
Il contratto assicurativo e’ infatti il contraltare concettuale al rischio di un evento se rientra nella sfera diretta dell’attività del contraente; diventa mera scommessa speculativa se l’evento assicurato o la cosa assicurata  è al di fuori della sfera economica personale : in altre parole per quasi cinquanta anni l’Inghilterra ha promulgato leggi per proibire la speculazione ed  i contratti aleatori.

Adam Smith rivela lo specchio in cui si riflette la vita economica e sociale dell’epoca che è rivolta al passato. Il suo pensiero sintetizza  la tradizione ,  identificata nell’uomo  virtuoso e prudente : operosità, perseveranza, onestà. L’uomo prudente è colui che è capace di sacrificare gli agi e i piaceri presenti perché “la strada che porta alla virtù è la stessa che porta alla fortuna”. L’etica delle leggi è fautrice di benessere, in quanto “commercio e manifattura possono raramente prosperare in uno stato in cui non via sia un certo grado di fiducia nella giustizia del governo” perchè “la società può sussistere, anche se non nel migliore dei modi, senza beneficenza; ma, necessariamente, il prevalere dell’ingiustizia la distrugge del tutto.”  Sembrerebbe quindi che l’autoregolamentazione del mercato, il concetto della mano invisibile, continuamente richiamato dalle teorie liberiste finanziarie assurgendo Adam Smith a loro antesignano paladino siano state liberamente interpretate  mistificando il pensiero smithiano.  Smith pone infatti al centro del mondo la persona, l’uomo prudente, commerciante, imprenditore, portatore del senso di giustizia che rappresentava l’economia reale, non quella finanziaria,  non vi era la spersonalizzazione del rapporto economico, che era invece basato unicamente sull’ “intuitu personae”  perché le società commerciali erano di persona , non esistevano le società per azioni, ed il limite dell’agire dell’ imprenditore erano – oltre la morale –  le leggi , Daniel Defoe infatti andò in prigione per bancarotta. Il mercato quindi trovava il proprio equilibrio perché il mercato era fatto di uomini che rispondevano personalmente delle proprie azioni e l’applicazione della  legge, era il deterrente ed allo stesso tempo  giustizia. Con l’avvento della  rivoluzione industriale e l’abrogazione del Bubble Act e del Barnard’s Act  dopo le guerre napoleoniche, si modificò la concezione nell’opinione pubblica di un economia non più legata al rapporto personale che condizionava, ma  sulla sua spersonalizzazione con la costituzione delle società di capitali, che traevano la loro linfa dal credito e dalla Borsa. In altre parole lo scambio diventato asettico perdeva  quel legame emotivo e di comunione  fra acquirente e venditore ed il  senso di giustizia basato “ sulla giusta mercede”  facendo riemergere i vizi dell’avidità e le sue distorsioni in quanto fu legalizzata la speculazione.
Ma torniamo al 1776, anno della pubblicazione de “La richezza delle Nazioni”:  il debito pubblico inglese era particolarmente rilevante, Adam Smith dedica l’ultimo capitolo al debito pubblico.  Ne sintetizziamo il pensiero.
Il debito pubblico veniva  considerato una “partita disonorevole”, “ ..la pratica rovinosa dei prestiti”… “ l’espediente rovinoso dei prestiti perpetui”… “ l’aumento degli enormi debiti che  oggi  ci affligono e  a lungo andare probabilmente manderanno in rovina tutte la grandi nazioni europee…”.

Tutte le nazioni? Non sembra. Precisa infatti: “si dice che l’attuale re di Prussia e il suo predecessore  siano i soli grandi sovrani d’Europa  che abbiano accumulato un ingente tesoro….”.  Anche 240 anni fa il modello economico-culturale della Germania evidenziava la sua superiorità nel panorama europeo.
Smith ricorda che il debito fluttuante contratto negli ultimi cinquantanni  divenne man mano  perpetuo, le imposte quindi soddisfacevano solo il pagamento degli interessi. “Fronteggiare le esigenze presenti è sempre l’obbiettivo che principalmente interessa coloro che sono coinvolti nell’amministrazione degli affari pubblici. La futura liberazione dell’entrata pubblica viene lasciata alla cura della posterità”.
La riduzione della necessità di cassa avveniva solo per una variazione dell’interesse sul debito: “ i creditori dello stato furono indotti ad accettare il cinque per cento .. il che provocò un risparmio dell’uno per cento..”. Ma questo risparmio è “ sempre a disposizione per essere ipotecato … per qualsiasi esigenza dello stato.”… “e il governo trova sempre più conveniente sostenere nuove spese ricorrendo ( al risparmio )  anziché istituire una nuova imposta.” Smith analizza l’effetto delle imposte sui cittadini : “ ogni nuova imposta è immediatamente sentita dalla gente. Essa provoca sempre qualche scontento ed opposizione … la gente si lamenta di ogni nuova imposta e tanto più difficile diventa trovare nuovi oggetti di imposizione o aumentare le imposte già in essere.” Ne discende che “quanto maggiore è il cumulo dei debiti pubblici …. tanto meno è probabile che il debito pubblico venga ridotto in maniera sensibile.”

La crescita del debito pubblico inglese fu iperbolica: nel 1697 era di 21,5 milioni di sterline, nel 1701 si ridusse a 16,3 milioni, nel 1714 era diventato di 53 milioni, nel 1739 dopo diciassette anni di pace era diminuito a solo 46 milioni, nel 1748 era salito nuovamente a 78,3 milioni di sterline, nel 1764 era pari a 139,5 milioni  sterline, nel 1775  era di 129.966.086 di sterline.
Smith era molto preoccupato per la situazione debitoria del suo paese. Analizza la tesi ricorrente dell’epoca  – il debito essendo  detenuto dai cittadini inglesi non creerebbe problemi –  “la mano destra non fa altro che pagare la mano sinistra, è soltanto una parte di reddito di una categoria di cittadini che viene  trasferita all’altra”, egli conclude che comunque “non sarebbe per questo meno dannoso”.  Affronta l’imposizione fiscale finalizzata al pagamento degli interessi : troppe tasse possono determinare il trasferimento dei capitali e “ l’attività del paese necessariamente decadrà” perché “il reddito può venire talmente sminuito” che si è  “nell’impossibiltà assoluta di fare” e si è “continuamente esposti alle mortificazioni e vessatorie visite degli esattori del fisco”.
Che fare dunque? Non vi è soluzione per Adam Smith : “la liberazione del debito pubblico, se mai si è realizzata, è sempre stata mediante bancarotta… anche se spesso mascherata.. l’aumento della denominazione della moneta è stato l’espediente più comune..”.

La soluzione praticata dai governanti dell’epoca era dunque una svalutazione  mascherata, ovvero creazione dell’inflazione.
Già si sentivano nell’aria rullare i tamburi, la guerra contro i coloni americani che durò sette anni era alle porte e con essa anche l’ennesimo incremento del debito pubblico inglese. Quando firmò la pace l’ Inghilterra – sconfitta – era sull’orlo del caos sociale ed economico già manifestatosi con le sommosse di Gordon del 1780.

Dott. Gianluigi  Longhi

consigliere nazionale di Casa del Consumatore

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