Il prezzo del vino in bottiglia

Circa quindici anni fa, dopo scandali, polemiche e crolli di mercato, il livello medio del vino italiano si è fortemente innalzato. Grazie a politiche di coltivazione selettiva, i vitigni autoctoni nazionali, unici al mondo per numero di varietà e distribuiti in territori profondamente diversi l’uno dall’altro, sono stati sfruttati dalle aziende in maniera molto efficace, puntando ad una produzione fondata sulla tradizione e sulla qualità.
Analizzando brevemente il prezzo del vino, emerge che una bottiglia da invecchiamento costa al produttore circa € 2,50 a cui bisogna sommarne altrettanti dovuti ad una serie di spese per il confezionamento (bottiglia, tappo, capsula, etichetta, invecchiamento in cantina e in bottiglia prima della commercializzazione). Non è finita, prima di arrivare al consumatore, dobbiamo aggiungere trasporto, distribuzione, grossista, dettagliante. Totale: 7-8 euro. Il vino leggero da tavola costa anche la metà. Purtroppo, la “grande rinascita” del vino e gli interessi economici ad essa connessi hanno creato un habitat ideale per gli “squali”. Il nemico peggiore per i consumatori è sempre lo stesso: la pubblicità. Troppo spesso le descrizioni enologiche sembrano più adatte ad un’opera d’arte moderna che ad un alimento. Vini che fino a qualche anno fa costavano 7-8 euro, dopo qualche premio hanno raddoppiato il prezzo e spesso nuovi prodotti vengono immessi sul mercato a prezzi elevati senza che a questi corrisponda un’effettiva qualità.
Gli aumenti indiscriminati ed ingiustificati si verificano nella fascia di prezzo (da € 4 ad € 20) che rappresenta il 90% delle vendite (il residuo 10% -con le eccezioni quasi grottesche di vini-mito da parecchie centinaia di euro- ha un prezzo giustificato dalla produzione molto limitata rispetto alla domanda, dalla tradizione e dalla storia di particolari vigneti).
A questi sistemi si aggiungono quelli escogitati dai produttori più furbi che versano nelle botti i trucioli di legno per falsificare i passaggi in barrique o aggiungono solfiti superando le quantità consentite dalla Legge a tutela della salute. Risultato? Al consumatore resta in bocca un fortissimo sapore di legno, il “mal di testa del giorno dopo” e l’amara consapevolezza di aver speso male i soldi. Insomma, è davvero difficile orientarsi in questo settore. Perciò è necessario prestare la massima attenzione al mercato, informarsi sulla qualità delle annate, confrontare i prezzi, non fidarsi della pubblicità e ricordare che il miglior modo per risparmiare è la “filiera corta”, ossia acquistare direttamente dal produttore saltando tutti i passaggi intermedi che incidono per almeno un terzo sul prezzo finale.

Venditori porta a porta: “programmati” per persuadere

I contratti conclusi da un rivenditore professionista che si sposta da un luogo all’altro e che “visita” il consumatore, cioè il potenziale cliente, senza essere stato invitato da lui, rientrano nella categoria dei “contratti negoziati fuori dei locali commerciali” disciplinata da apposite norme del codice del consumo (artt. 45 e segg.). Si tratta di una categoria molto ampia di cui fanno parte non soltanto le vendite porta a porta, ma anche, ad esempio, i contratti stipulati durante un’escursione organizzata dall’azienda fuori dei propri locali (fenomeno molto diffuso negli anni ’90) e i contratti stipulati per corrispondenza sulla base di cataloghi ricevuti o acquistati dal consumatore.
Come per il telemarketing, anche per le vendite porta a porta esistono tecniche di persuasione e veri e propri corsi di vendita e comunicazione. In particolare sono sette le fasi da seguire per raggiungere lo scopo commerciale:
– la fase dell’approccio per farsi accettare: l’incaricato deve avere un aspetto curato e rilassato, suonare il campanello, salutare e motivare la sua visita;
– il sondaggio per selezionare il cliente: rivolgere all’interlocutore una serie di domande da cui dedurre i suoi bisogni e proporre le relative soluzioni;
– la fase di transizione per poter entrare in casa con vari espedienti, ad esempio chiedere un piano di appoggio, e far sedere il potenziale cliente con le spalle alla porta;
– la fase di presentazione del prodotto/servizio: con voce calma e sicura l’operatore presenta l’azienda e mostra i vantaggi e le qualità del prodotto/servizio offerto;
– la fase di conclusione del contratto: rispondere alle domande del cliente, prendere i suoi dati e farlo firmare;
– la fase dell’ordine in cui si fa scegliere al cliente i prodotti e si precisano modalità di pagamento e tempi di consegna;
– infine la fase di consolidamento in cui l’incaricato ha il compito di rassicurare il cliente congratulandosi con lui per la sua scelta e congedandosi.
Queste sono le azioni che deve imparare a compiere il “buon venditore porta a porta”.
Anche se molti se lo scordano, il buon venditore ha però anche dei precisi obblighi di legge: la legge n. 173 del 2005 regolamenta alcuni aspetti della vendita diretta a domicilio e, oltre a disciplinare i rapporti tra impresa affidante e incaricato, prevede per quest’ultimo l’obbligo di portare il tesserino di riconoscimento.
In questa materia poi è particolarmente importante l’art. 47 del codice del consumo che stabilisce l’obbligo del professionista di informare, anche per iscritto, il consumatore relativamente a termini, modalità ed eventuali condizioni per l’esercizio del diritto di recesso, che è il principale strumento di tutela dell’acquirente-consumatore: se non ve lo dicono, il diritto di recesso si può esercitare entro i dieci giorni lavorativi dalla data di sottoscrizione del contratto o, in caso di beni consegnati a casa, entro i dieci giorni lavorativi dalla consegna.
Dedicheremo comunque uno specifico articolo alla completa disciplina del recesso.

Stop alle proroghe sulla class action!

L’attuale art. 140 bis del Codice del Consumo, che ha già introdotto nel nostro sistema giuridico la class action, deve entrare in vigore!
Questo è quanto chiedono congiuntamente La Casa del Consumatore e le altre associazioni dei consumatori del Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (CNCU) rifiutando il testo di recente approvato dal Senato che, giudicandolo inapplicabile, dannoso per i consumatori, avulso dal Codice del Consumo e contrario alle indicazioni provenienti dall’Unione Europea in merito alla prossima introduzione dell’azione collettiva risarcitoria transfrontaliera.
I rappresentanti delle organizzazioni dei consumatori, considerato che l’emendamento del Governo ha scavalcato sia il dibattito parlamentare che le unitarie proposte delle associazioni dei consumatori mai consultate su un aspetto così delicato, hanno predisposto una formale richiesta di audizione ai presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato ai quali intendono illustrare le ragioni della ferma opposizione al testo già passato al Senato.
In vista della prossima tornata elettorale, le associazioni dei consumatori auspicano che ciascun candidato sostenga la definitiva entrata in vigore del testo sulla class action di cui all’art. 140 bis del Codice del Consumo.

Estratto conto carte di credito: errori occasionali o sistematici?


Molti titolari di carte di credito ci hanno segnalato alcuni disguidi dovuti al tardivo ricevimento dei relativi estratti conto.
Non tutti infatti hanno scelto l’addebito bancario. Molti hanno preferito rimanere al “vecchio sistema” per cui ricevono l’estratto conto delle spese effettuate e provvedono al relativo pagamento entro il termine indicato.
Ma cosa è successo ai nostri “informatori” e chissà a quante altre persone? Quasi sistematicamente ricevono l’estratto conto a termini di pagamento già scaduti. Di conseguenza con quello successivo si trovano addebitato il ritardo nel pagamento e i relativi interessi di mora.
Si tratta di un errore che può capitare, ma quando capita troppo spesso qualche dubbio sulla buona fede del gestore può sorgere.
Del resto, trattandosi di cifre tutto sommato irrisorie, c’è chi preferisce evitare la noia di inviare lettere di contestazione e sceglie di lasciar perdere.
Se anche voi vi siete trovati in questa situazione, segnalatecelo e noi come associazione di consumatori interverremo per porre fine a questa pratica commerciale scorretta.
cercheremo di fare il possibile per porre fine a questi disguidi

Fumo passivo: tra diritto alla salute e libertà di fumare

Dove finisce la libertà di fumare? Dove comincia il diritto alla salute degli altri.
Alcuni studi hanno rilevato che un italiano su quattro è vittima del fumo passivo. Non è esagerato parlare di effetti nocivi anche in questi casi: è ampiamente dimostrato che le conseguenze possono essere gravi nei casi di esposizione prolungata o costante nel tempo al fumo degli altri. Si pensi soprattutto ai bimbi che hanno genitori fumatori.
La sensibilizzazione su questo tema non è mai abbastanza, anche perché non tutti sono dotati di un buon livello di civiltà e di rispetto del prossimo.
Per fortuna esistono alcune norme che hanno ridotto i casi di “fumerie pubbliche”.
Già la famosa “626” del 1994 aveva previsto in capo al datore di lavoro l’obbligo di assicurare ai  dipendenti la tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro. Obbligo rafforzato poi da alcune sentenze come la n. 399 del 1996 con la quale la Corte Costituzionale ha sancito l’obbligo per i datori di lavoro di adottare “misure capaci di ridurre il rischio derivante dal fumo passivo” allo scopo di “far escludere ogni rilevante pregiudizio per la salute dei non fumatori nei luoghi di lavoro”.
Ma ancor più incisiva si è dimostrata la legge antifumo del 2004 che ha posto il divieto di fumare in locali pubblici “chiusi” come bar, ristoranti e discoteche. Grazie a questa legge, molti non fumatori hanno riscoperto il piacere di andare al pub con gli amici o a ballare in discoteca al sabato sera respirando aria pulita e senza svegliarsi la mattina seguente con tosse e mal di gola. Peraltro anche molti fumatori hanno gradito questo intervento legislativo, sia perché impone loro una forzata diminuzione del numero di sigarette giornaliere, sia perché comunque, anche per un fumatore, l’aria chiusa di un locale satura di fumo risulta sgradevole.
In precedenza, quando i locali erano affollati di gente che fumava, necessariamente il fumo usciva e a pagarne le conseguenze erano gli abitanti degli appartamenti sovrastanti che subivano le immissioni.
La Corte di Cassazione non è rimasta indifferente a questo problema e, con una decisione del 31 marzo scorso, ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze che condannava il titolare di un bar a risarcire la somma di 10 mila euro alla famiglia che abitava sopra al suo locale e che da molti anni era costretta a tenere chiuse le finestre, anche in estate, per evitare che il fumo, uscendo dal bar, entrasse nell’appartamento.
Il tipo di danno che la Corte ritiene sussistente non è quello patrimoniale, bensì il c.d. danno esistenziale che nel caso specifico consisterebbe nell’essere stati costretti a “subire gli effetti molesti, fastidiosi e insalubri del fumo passivo e a tenere chiuse le finestre anche in piena estate per tutelare la propria salute”. In sostanza le immissioni impedivano alla famiglia di godere della propria casa.
Oggi si può dire che la legge antifumo sia largamente applicata e rispettata. Di conseguenza i fumatori diligenti esercitano la propria “libertà di fumare” all’esterno dei locali pubblici. Ma quando sono tanti i fumatori davanti al locale si creano comunque delle nuvole di fumo dense e non si escludono anche in questo caso immissioni negli appartamenti sovrastanti. Tuttavia non sarà possibile o comunque sarà più difficile ottenere condanne per i gestori dei locali al risarcimento ai vicini, perché il fumo non promana più dall’interno del loro esercizio, anche se, per la verità, proviene da loro clienti.
È necessario quindi fare appello alla coscienza di ciascuno, al comune senso civico e al rispetto del prossimo. Perché la mia libertà di fumare finisce laddove comincia il tuo diritto alla salute.

Un’estate al mare, stile balneare

È maggio, il mese in cui si programmano le ferie.
Anche quest’anno molti italiani sceglieranno le vacanze al mare e trascorreranno intere giornate sulle nostre bellissime spiagge.
Ma quanto costa prendere il sole?
Le spiagge libere sono poche e molte famiglie preferiscono gli stabilimenti balneari per diverse ragioni (varietà di servizi, maggiore sicurezza per i bimbi).
Tuttavia, anche in questo caso bisogna evitare gli sprechi, a maggior ragione in tempi di “crisi” come quelli che stiamo vivendo. Si rende quindi necessaria una selezione sulla base di alcuni criteri, in particolare sulla base delle esigenze e delle disponibilità economiche di ciascuno di noi e del rapporto qualità-prezzo dei servizi offerti.
Per fare una scelta economicamente oculata, bisogna poter confrontare le varie offerte. E proprio a questo hanno pensato gli ideatori del “Sistema informativo sui prezzi degli stabilimenti balneari” presentato a Marina di Carrara lo scorso 3 marzo e che potrebbe diventare attivo a breve.
Si tratta di un portale cui sarà possibile accedere via internet all’indirizzo www.osservaprezzi.it per conoscere i prezzi applicati dagli stabilimenti aderenti all’iniziativa.
La consultazione sarà semplice e non ci sarà bisogno di registrarsi. Si potranno conoscere tutti i dati che ciascun esercente inserirà: denominazione, recapiti, data di apertura e di chiusura dell’attività stagionale, coordinate satellitari, immagini dello stabilimento; ma soprattutto si potranno conoscere i prezzi standard per ogni servizio, eventuali offerte, promozioni, riduzioni e sconti.
Inoltre si potranno avere informazioni sulle dotazioni come il numero di docce, cabine, sdrai e lettini, e sui vari servizi aggiuntivi come giochi per bambini, idromassaggi, campi sportivi e quant’altro.
Si tratta di uno strumento molto importante per i consumatori che potranno evitare “brutte sorprese” e prevedere anticipatamente non soltanto le spese di soggiorno ma anche quelle di balneazione.
Ci auguriamo quindi che venga attivato al più presto e che siano tanti i gestori che sceglieranno di inserire le varie informazioni e rendere trasparenti i prezzi.

Cassazione: autovelox nascosto = automobilista truffato


Quante volte, girando per le strade d’Italia, ci siamo imbattuti in cartelli con su scritto “controllo elettronico della velocità” senza però notare alcun autovelox nei dintorni?
I motivi possono essere sostanzialmente due: o l’autovelox c’è, ma è nascosto, oppure si tratta di una zona in cui a volte, ma non sempre, vengono posizionate delle apparecchiature di rilevamento mobili.
In questo secondo caso le amministrazioni si tutelano anticipatamente, posizionando i cartelli nelle zone dove potrebbero trovarsi dei posti di rilevamento, ma non necessariamente e non quotidianamente.
Tali segnalazioni sono d’obbligo in base all’art. 142 del Codice della strada. Inoltre, con una circolare del 2007, il Ministero dell’Interno ha stabilito che la segnalazione deve essere posta almeno 400 metri prima del punto di collocamento dell’apparecchio.
Ma l’art. 142 non prescrive soltanto che le postazioni di controllo siano segnalate, ma anche che siano visibili. Di conseguenza gli autovelox per così dire “imboscati” non sono legittimi e le eventuali multe comminate possono essere oggetto di ricorso. Lo spirito della norma infatti non è quello di far cassa a tutti i costi ma quello di garantire la sicurezza stradale. Quindi la finalità non è reprimere ma prevenire.
Un caso particolarmente grave è capitato in tre comuni calabresi dove l’impresa che aveva in gestione gli autovelox, li aveva ben nascosti “piazzandoli” all’interno di auto in sosta di sua proprietà, incrementando a dismisura il numero di multe. Il motivo di tutto ciò? Semplice: l’impresa riceveva un compenso per ogni verbale di infrazione del quale veniva riscossa la relativa sanzione. Ben presto però si è scoperto l’inganno e la Cassazione Penale, con una recente sentenza di marzo 2009, ha confermato il sequestro degli autovelox, ritenendo sussistente il reato di truffa agli automobilisti.