L’uomo al centro del mondo

L’uomo si è sempre considerato al centro del mondo con una visione di potenza.  La natura quindi è sempre stata considerata funzionale al benessere dell’uomo. Ogni epoca è stata caratterizzata da ideologie che  hanno determinato le organizzazioni sociali.
Nell’antica Grecia il lavoro era riservato agli schiavi, ed il commercio ai non cittadini. Aristotele riteneva che lo scambio commerciale fosse in contrasto con la virtù umana. L’agorà era quindi un luogo di incontro, non un mercato. Anche l’elite romana – a parte poche eccezioni di senatori dedicati al commercio o al prestito – ragionava come Aristotele. Cicerone ad esempio riteneva che un opificio non avesse nulla di nobile. Per Plutarco l’attività commerciale era ignobile e servile. La democrazia del mondo classico era solo appannaggio dell’elite oligarchica al potere, poi con l’avvento del cristianesimo si affermò il principio di uguaglianza e l’eliminazione della schiavitù.

Nel medioevo con il feudalismo emerge il pensiero tomistico, l’uomo è la misura di tutte le cose ed il rapporto dell’uomo con il mondo dei beni esteriori è parametrato secondo la sua condizione sociale. Il modo di vita dunque doveva essere adeguato al ceto sociale per cui mutava in quantità e qualità a seconda della classe di appartenenza. Ai tempi emergevano due classi: i nobili e le classi popolari, i ricchi e i poveri.
I ricchi, i nobili, disprezzavano il denaro, era sporco come tutte le attività dirette al guadagno, il denaro serviva solo per essere speso. Passavano i loro giorni a caccia, nella guerra, o in serate lascive o al gioco d’azzardo. Le spese ingenti necessitavano dunque di entrate, che venivano alimentate mediante i tributi imposti alla massa dei contadini. Ognuno comunque era consapevole del suo ruolo nella società, l’artigiano, il contadino lavoravano in funzione del proprio bisogno  e del suo soddisfacimento, non si produceva il superfluo né lo si desiderava. La loro vita si identificava nei loro prodotti e manufatti. In particolare l’artigiano viveva il proprio lavoro con il vanto dell’artista. Ogni manufatto era originale e creato verso la perfezione che degnamente doveva esaltare le virtù del suo creatore.
Non vi era ansia ne angoscia di produzione, il ritmo dell’attività economica non era stressante, in pieno rinascimento vi erano circa 260 giorni di festa all’anno. Questo perché la durata del periodo di produzione  era stabilita – come già ricordato – da due fattori : dalle esigenze e qualità del prodotto e dalle necessità naturali dei bisogni del lavoratore. Ne deriva che si agiva in modo empirico, conservatore, tramandato dal maestro all’apprendista che fiero delle sue capacità acquisite rinnovava la tradizione e si identificava  con orgoglio nelle corporazioni dei mestieri.
Si ritiene infatti che meno l’uomo è evoluto, tanto maggiore risulta l’influsso che egli subisce da parte dell’esempio, della tradizione, dell’autorità, della suggestione.

Nel corso della esistenza umana, alla forza della tradizione si aggiunge la forza dell’abitudine, altrettanto potente, che spinge l’uomo a fare sempre più volentieri quello che ha già fatto. L’abitudine è la volontà o il piacere formatisi con l’esperienza. In questo gioco simbiotico l’esercizio è attività formativa e  diventa esperienza che trasmette piacevolezza e sicurezza nella tradizione. E così ne deriva che l’individuo non guarda al nuovo, ma tende invece a perfezionare l’antico. E  così lo spirito industriale ed operoso si è sviluppato, ma se è spirito di rendita e privilegio si sedimenta e si radica involvendosi.

Ma l’individuo è – come inizialmente ricordato – anche volontà di potenza, di sfide dell’ignoto, di spirito prometeico diventato lo spirito del Faust all’inizio della rivoluzione industriale. Queste elite creative determinano ed imprimono la società del loro tempo. A volte sono politici, altre volte sono inventori e imprenditori, che rompono la tradizione aprono con l’immaginazione creatrice nuovi  percorsi, nuovi mondi, nuove rivoluzioni. Tradizione che talvolta non viene modificata lasciando nella frustrazione le forze del cambiamento.

Nell’Italia di oggi vi sono una pluralità di forze politiche, economiche e sociali che richiama separatamente quanto descritto, ognuno che legge si identificherà come personalità in parte o in più parti, in un periodo storico o in una classe di appartenenza. Chi vive di privilegi e di rendite, i più alienati dai desideri consumistici, altri di una visione nostalgica e  bucolica, ma quasi tutti indifferenti e apatici al legame sociale comunitario. Soli pochi cercano il cambiamento. Ma la storia è continua, niente richiama identiche condizioni, possono essere simili ma non uguali, le esperienze del passato e l’evoluzione del pensiero e della società hanno ampliato i paradigmi di giudizio e dell’esistenza.
Deve comunque preservarsi nel tempo il senso del lavoro e della dignità della persona umana. E’ infatti ancora oggi l’uomo il centro del mondo, custode della natura per le generazioni che verranno, con la responsabilità morale di lasciare al futuro la speranza, ultima dea del vaso di Pandora.

Gianluigi Longhi

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